UNIVERSITÀ. L’EMENDAMENTO MELONI E IL VALORE LEGALE DEL TITOLO DI STUDIO.

L’emendamento al DDL sulla Pubblica Amministrazione presentato dal deputato Marco Meloni (PD) e approvato in commissione alla Camera, costituisce a tutti gli effetti l’ennesimo attacco al valore legale del titolo di studio in Italia. Da una proposta che originariamente prevedeva l’abolizione del voto minimo di laurea come requisito per la partecipazione ai concorsi pubblici, si è passati a un testo in cui si parla di utilizzare non solo il voto di laurea, ma anche il prestigio dell’ateneo di provenienza come criterio per l’accesso ai concorsi. Di fatto, l’emendamento sancisce potenzialmente la non omogeneità fra titoli di studio analoghi conseguiti in due atenei diversi. Una proposta irricevibile, che come spesso avviene giunge all’improvviso e per iniziativa parlamentare, nel tentativo di mantenere il più possibile il Governo al sicuro (si pensi al famigerato Pdl Aprea di qualche anno fa).

Condanniamo con decisione quello che già appare come l’ennesimo attacco all’istruzione, condotto sulla base di argomenti ormai invecchiati: la meritocrazia, la necessità di eliminare i privilegi e di stroncare i cosiddetti “laureifici”. Più o meno gli stessi argomenti che si utilizzano quando si parla di cancellare o ridimensionare il valore legale del titolo di studio, che resta di fatto la questione fondamentale di una proposta che potrebbe essere il primo tassello di una prossima “buona università” firmata Matteo Renzi.

Proprio per questo è necessario fare chiarezza: difendere il valore legale del titolo di studio non significa volere un’istruzione livellata al ribasso, non significa voler tagliare le ali agli atenei “di eccellenza”. La nostra contrarietà a questa proposta è ben diversa da quella espressa dalla schiera di rettori di potenziali atenei “di serie B” che oggi sentono minacciati i propri privilegi. La differenziazione fra università “di serie A” e “di serie B” è già una realtà nei fatti, analogamente a quanto avviene per le scuole, ma con un’influenza delle università private di gran lunga maggiore. Dinanzi a questo divario crescente, in termini di qualità dell’insegnamento e di costi economici, i fautori dell’abolizione del valore legale del titolo di studio vorrebbero semplicemente sancire in modo formale nel settore pubblico ciò che di fatto già avviene nel privato: la laurea conseguita in una università non prestigiosa e “a buon mercato” sarà considerata semplicemente carta straccia. In altre parole, una vera e propria demolizione dell’ultimo baluardo rimasto in difesa del diritto allo studio, condotto però in nome della lotta ai presunti privilegi di cui godrebbe chi, provenendo da un ateneo “di serie B” vede il suo 110 equiparato legalmente a un 110 conseguito in un costoso ateneo “di serie A”.

Ciò che non si dice è che il vero compito del Governo dovrebbe essere quello di sopperire a questa situazione, garantire un livello di insegnamenti omogeneo nelle università di tutta Italia e la possibilità di accesso a tutti indipendentemente dalla condizione economica. I veri privilegi da combattere sono quelli delle università private, che diventeranno una tappa obbligata per chiunque voglia tentare l’inserimento nel pubblico impiego, con un’evidente barriera di natura economica. L’eccellenza degli insegnamenti va rivendicata come condizione necessaria in tutte le università, e il merito da premiare è quello basato sull’impegno, non sull’ateneo di provenienza, che a sua volta è determinato dalla condizione economica.
IL VALORE LEGALE DEL TITOLO DI STUDIO NON DIFENDE I PRIVILEGI, MA CI DIFENDE DAI PRIVILEGI.

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